Tutela dei diritti umani e repressione dei Crimini di guerra

Crimini di guerra e diritti umani

Le prime formulazioni dei crimini di guerra anticipano, e non di poco, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, trovando nella pace di Westfalia del 1648 il primo caso in cui si distinse davvero tra combattenti e civili nello jus in bello; più vigorosa fu però la prima Convenzione di Ginevra, che nel 1864 pose in termini giuridici la tutela dei medici da campo e dei feriti da loro soccorsi; essa fu poi costantemente revisionata e integrata, divenendo un formidabile propulsore per il diritto umanitario in guerra. Ulteriore sforzo si ebbe con le due Convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907, mentre nel 1921 la Società delle Nazioni istituì la Corte Permanente di Giustizia Internazionale e nel 1925 i gas asfissianti vennero messi al bando (tristemente violato però dall’Italia colonialista); si giunse persino, col patto Briand-Kellogg del 1928, a vietare la guerra in ogni sua forma - ma le sue 63 ratifiche, da parte dei principali paesi del mondo, non valsero a scongiurare un altro conflitto mondiale.

Tutto ciò nulla toglie alla straordinaria vitalità che si ebbe, nell’ambito dei crimini di guerra, a seguito della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani - o, forse più correttamente, a seguito dell’orrore della seconda guerra mondiale che pose le basi proprio per la Dichiarazione stessa. È infatti solo da questo periodo in poi che si afferma una prassi concreta riguardo la repressione dei crimini di guerra, seppure con una forte discontinuità e una inefficienza tristemente nota.

Strumenti esistenti

Gli strumenti che oggi mirano a prevenire e a reprimere i crimini internazionali, tra cui rientrano i crimini di guerra, possono essere inquadrati in due categorie: da un lato quelli dal carattere prettamente internazionale, come le apposite corti penali, e dall’altro quelli tipici degli ordinamenti interni, nei casi in cui siano i tribunali statali ad occuparsi della repressione dei crimini in questione. Va detto, per inciso, che ci si sta riferendo all’ambito della responsabilità individuale, e non già di quella statale: quest’ultima, pur sorgendo spesso contemporaneamente a quella individuale (quando il criminale di guerra sia anche organo dello Stato, come nel caso di ufficiali dell’esercito), vede però un regime giuridico molto diverso, più complesso e, com’è noto, meno efficace.

Nella categoria degli strumenti internazionali rientrano le varie corti e i vari tribunali istituiti a partire dal secondo dopoguerra, con caratteri e risultati molto diversi tra di loro. Si può innanzitutto distinguere tra organi ad hoc, istituiti dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU per occuparsi di singole questioni, come nel caso del Tribunale per la ex Jugoslavia, e organi permanenti, che invece si occupano di tutti i “crimini internazionali più gravi, motivo di allarme per l’intera comunità internazionale”, come sancisce l’articolo 5 dello Statuto della Corte Penale Internazionale. Essa rappresenta l’organo permanente più importante ed è stata istituita con lo Statuto di Roma nel 1998; ma la sua operatività ha visto delle gravi problematiche, sia per questioni prettamente giuridiche (poiché essa, a differenza delle corti ad hoc, può esercitare la propria giurisdizione solo se lo Stato del caso non voglia o non possa perseguire il crimine), sia per l’opposizione ricevuta da più parti, come l’Unione Africana, che accusa la Corte di interferire con i suoi governi e di occuparsi solo di questioni africane, gli Stati Uniti del presidente Trump, che emanarono sanzioni nei confronti dei funzionari incaricati di indagare sui presunti crimini commessi in Afghanistan, o ancora la Russia e la Cina, che nel 2014 impedirono al Consiglio di Sicurezza di deferire alla Corte la situazione in Siria. La funzionalità di quest’organo appare dunque molto compressa, e la recente polarizzazione delle relazioni internazionali non consente di nutrire forti aspettative.

Prassi in concreto

Anche in considerazione dei problemi di operatività che sempre hanno afflitto le corti penali internazionali, dunque, è fondamentale esaminare la prassi concreta di questi organi, per come essa si è avuta nel corso della storia. Trascurando il caso abbastanza irrilevante della Corte Permanente di Giustizia Internazionale, il primo vero tribunale si ebbe a seguito del secondo conflitto mondiale, quando nel 1945 l’Accordo di Londra istituì il Tribunale di Norimberga (in maniera più rigorosa di quanto avvenne invece per il Tribunale di Tokyo, creato unilateralmente dagli Stati Uniti); al netto delle polemiche di teoria del diritto emerse nel corso del processo, come quella relativa alla violazione del principio nullum crimen sine poena (dal momento che non esistevano fonti scritte del diritto internazionale che definissero molti dei crimini di cui erano accusati gli imputati), va rilevato che il processo di Norimberga rappresenta il primo grande caso in cui degli individui siano stati chiamati a rispondere dei propri crimini davanti a un tribunale internazionale. E non si può trascurare che esso sia stato anche uno dei casi più efficaci, se non il più efficace in assoluto: la prostrazione politica della Germania sconfitta e il desiderio dell’occidente di estirpare, ad ogni costo, l’orribile ideologia nazista, consentirono un regolare e fluido scorrimento del processo, senza le gravi disfunzioni che caratterizzeranno le esperienze di altre corti penali.

Tuttavia, al netto delle già citate problematiche relative alla Corte Penale Internazionale, un discreto successo lo ebbero le corti ad hoc istituite per i crimini commessi nella ex Iugoslavia e in Ruanda, rispettivamente nel 1991 e nel 1994; create dal Consiglio di Sicurezza e dotate sia di uno Statuto che di un Regolamento sul proprio funzionamento, le corti hanno svolto - pur con una certa lentezza - il loro incarico e dal 2010 sono state sostituite dal Meccanismo Residuale per i Tribunali Penali Internazionali, che si occupa di decidere i pochi casi ancora pendenti.

Conclusione e prospettive future

Appare quindi evidente un notevole sviluppo nella prassi della giustizia penale internazionale, che per molti versi ha superato il carattere eccezionale e “storico” del Tribunale di Norimberga e si è avviato, seppur a fatica e con molti stenti, nella direzione di un sistema stabile di repressione dei crimini internazionali. È innegabile però che questo percorso sia ancora in divenire, e che la concreta operatività di questi strumenti - in primis la Corte Penale Internazionale - appaia decisamente compromessa da una molteplicità di fattori diversi. Innanzitutto vi è la questione della legittimazione di queste corti: nel caso dei tribunali istituiti dal Consiglio di Sicurezza, cioè quelli ad hoc, essi vengono criticati perché si occupano solo delle poche e circoscritte questioni nelle quali si riesca ad evitare il veto incrociato delle grandi potenze, per cui la maggior parte dei conflitti sfugge alla loro competenza; né risulta molto diversa la situazione della Corte Penale Internazionale, istituita dallo Statuto di Roma che non ha visto la ratifica di molti e importanti Paesi, come Stati Uniti, Russia, India, Israele e Cina. Ciò è rilevante perché la Corte è competente solo su crimini commessi nel territorio di uno stato firmatario o da un suo cittadino, in qualunque territorio si siano svolti, e dunque vede fortemente circoscritta la sua giurisdizione - che difatti si è limitata esclusivamente agli Stati africani, al quale appartengono tutti i suoi imputati, da cui le già citate proteste.

Vi sono poi problemi di concreta operatività, dettati sia da elementi prettamente giuridici (come la natura complementare della Corte rispetto ai tribunali internazionali, che devono cedere la propria competenza solo se non disposti o non capaci a giudicare sul caso), sia da questioni politiche: è nota infatti la riluttanza della Corte a interpellare e perseguire i Capi di Stato, con poche eccezioni nel continente africano (come il sudanese al-Bashir e il ghaniano Taylor), mentre le imputazioni nei confronti di dittatori come Gheddafi e Kim Jong-Un vanno considerate come delle mere ammonizioni.

Appare dunque difficile, soprattutto nel contesto di una nuova polarizzazione dello scenario internazionale, immaginare una maggiore operatività della corte nel prossimo futuro; appare poi difficile un intervento concreto relativamente ai crimini di guerra compiuti nella guerra in Ucraina, dal momento che nessuna delle parti in causa ha ratificato lo Statuto di Roma (impedendo quindi alla Corte Penale Internazionale di intervenire) e che la Russia, in quanto membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, può apporre il veto su qualunque tentativo di costituire un tribunale ad hoc sulla vicenda. 

Pierpaolo Arnaldo Militerno

Bibliografia: