I Diritti umani nell'antichità

Un primo rudimentale concetto di diritti umani: i popoli indoeuropei

Un concetto “moderno”

Nonostante la moderna accezione di diritti umani prende forma solo in tempi recenti, in particolare dopo la seconda guerra mondiale con l’omonima dichiarazione universale, si possono trovare tracce e nozioni rudimentali anche in tempi passati. L’accezione che si dà oggi ai diritti umani, pur venendo costantemente ampliata e affinata, è strettamente legata agli aspetti giuridici e legislativi del tema. Ciò ha certamente il vantaggio di permettere di lavorare con definizioni concrete e tangibili, facilitando il compito, già arduo, di difenderli a livello locale e internazionale; tuttavia una definizione di tal genere porta a tralasciare, o mettere per lo meno in secondo piano, tutti quegli aspetti strettamente morali e filosofici del Diritto in cui invece vanno ricercate storicamente le prime tracce di tale concetto.

Dal punto di vista storiografico, la genesi dei diritti umani viene generalmente associata agli anni delle grandi rivoluzioni, Francese, Inglese e Americana, e alla nascita del pensiero giusnaturalista e liberale. Tuttavia è assurdo pensare che prima del XVII e XVIII secolo non si sviluppò mai, seppur in termini abbozzati e non definiti, una riflessione sui diritti dell’uomo; infatti, sin dalle origini di una vita comunitaria via via più organizzata, si possono trovare accenni intuitivi di quelli che poi verranno denominati diritti umani, in particolare, dei diritti umani di prima generazione, ovvero quelli legati al concetto di libertà.

Etimologia

Come già accennato, il concetto stesso di diritti umani ha subito, e continua a subire, variazioni nel corso del tempo; proprio per questo, nel corso dei secoli, le definizioni date dai vari popoli e civiltà si sono sviluppate in maniera diversa. Secondo gli studi semantici di Émile Benveniste, illustre linguista e accademico francese della prima metà del 20esimo secolo, per le prime civiltà indoeuropee il concetto di libertà era strettamente legato all’appartenenza a un gruppo, alla protezione che da tale associazione conseguiva ma anche alla possibilità di una crescita comune. La libertà quindi si configura come processo collettivo finalizzato a migliorare le condizioni di vita dell’intero gruppo. Dalla stessa radice indoeuropea Leudh, ma anche da quella sanscrita Fyra, derivano anche i moderni termini tedeschi di amico (Freund) e amare (lieben), prova ulteriore, secondo Benveniste, della dimensione sociale e comunitaria della libertà in quanto fortemente legata ad un destino comune.

Anche i vocaboli liber in latino e eleutheros in greco, entrambi tradotti come libero, conservano la radice indoeuropea e dunque anche la sua accezione collettiva. Infatti, nel mondo antico, l’esercizio della libertà in termini collettivi si ritrova nelle varie civiltà, in particolare nei periodi più remoti: il Civis Romanus, appartenente alla comunità romana; gli Hómoioi spartani; la Sippe germanica, una società ancora primitiva priva di distinzioni sociali e economiche.

È necessario sottolineare come tale libertà era sì garantita a tutti i membri del gruppo, ma il modo di intendere tale gruppo era altamente escludente: schiavi, stranieri, donne e anche bambini in molti casi, non erano parte della collettività e di conseguenza non erano destinatari dei diritti garantiti agli altri membri.

Civiltà babilonese

Il cilindro di Ciro

Nel 1879 un gruppo di archeologi incaricati dal British Museum e guidati da Hormuzd Rassam scavano fra i resti di quello che, pochi decenni più tardi, verrà identificato come un tempio babilonese dedicato al dio Marduk. Fra le fondamenta del tempio trovano sepolto un cilindro cuneiforme di terracotta, delle dimensioni di un pallone da rugby, contenente poco più di 45 righe in lingua accadica. E un documento fondamentale, la cui influenza è tangibile nelle grandi civiltà del passato, dall’antica Grecia, all’antica Roma, fino ad arrivare alla società indiana: è la prima carta dei diritti umani della storia. Tale appellativo, che gli verrà attribuito in tempi molto più recenti della sua scoperta, è considerato da storici anacronistico, senza avventurarci in cavilli semantici, si può asserire con sicurezza che quelle 45 righe rappresentano uno spartiacque nella storia dei diritti dell’uomo.

Ciro il Grande

Discendente dalla stirpe persiana dei Teispidi, Ciro II, conosciuto anche come Ciro il Grande, fu un imperatore di Persia durante la seconda metà del VI secolo a.C. È passato alla storia come sovrano illuminato, tollerante e liberale. Infatti, dopo aver conquistato, non con le armi ma con un’efficace propaganda politica, Babilonia, liberò gli schiavi, abolì le discriminazioni razziali, concesse ad ognuno di scegliere liberamente la propria religione, impegnandosi anche a ricostruire i luoghi sacri dei vari culti rasi al suolo dai sovrani precedenti. I tre decenni del suo regno rappresentano il primo tentativo di avere uno Stato basato sulla diversità e sulla tolleranza religiosa e culturale, inoltre permise agli ebrei deportati a Babilonia da Nabucodonosor II di rientrare in Palestina. L’aspetto più innovativo della sua politica riguarda proprio la religione, anticipando di più di un millennio il concetto di laicità dello Stato. Fino al 18 secolo infatti gli stati saranno caratterizzati dalla presenza di una religione dominante o dal rifiuto totale della Religione stessa.

L’importanza oggi: fra simbolo e retaggio

Il cilindro di Ciro, vista la sua importanza, viene ripreso dai primi 4 articoli della Dichiarazione Universale Dei Diritti Umani (UDHR) ed una copia è conservata nel quartier generale delle Nazioni Unite a New York. Durante la dinastia Pahlavi (1925-1979) il cilindro di Ciro viene ripreso come simbolo nazionale dell’Iran, e nel 1998, durante la cerimonia per il 50esimo della UDHR il Segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Anan ricevette in dono una preziosa copia del cilindro, sottolineandone l’importanza, simbolica ma anche effettiva, che tale documento rappresenta ancora oggi.

Antico Egitto

Un caso particolare

La società dell’Antico Egitto, specialmente nel suo periodo più tardo, si configura come una struttura molto più aperta e “equa” rispetto alle altre civiltà coeve. Questo è strettamente legato alla struttura religiosa di tale civiltà, dove l’ordine sociale basato sul Maat, ovvero la sintesi di tutti quei principi etico-morali fondamentali basati sulla giustizia e armonia. Vi sono infatti aspetti della società egizia che anticipano di secoli la riflessione sui diritti umani. Un esempio è il faraone Bakenranef, identificato da Diodoro Siculo, storico del I secolo a.C., come uno dei più importanti legislatori dell’antico Egitto, favorì i diritti individuali, in particolare in 2 relazione alla proprietà terriera e alla fine della schiavitù per debiti.

È tuttavia necessario sottolineare che, nonostante i grandi passi avanti che rappresentava rispetto alla sua contemporaneità, la società egizia era ancora lontana dall’essere una società all’insegna dei diritti umani, basti pensare alla forte presenza della schiavitù e all’applicazione della pena di morte per molti reati.

Il ruolo della donna

In molte società antiche le donne erano spesso poste in condizione subordinata agli uomini, escluse dalla vita pubblica ed economica, e spesso limitate dal potere maschile anche nella sfera privata. L’antico Egitto rappresenta sotto questo punto di vista un’eccezione notevole. Nonostante la produzione letteraria e storiografica dell’antico Egitto rispecchi l’immagine classica e stereotipata, questo non impediva alle donne della nobiltà di ricopre cariche pubbliche di prestigio: dall’essere imprenditrici, medici, regine potenti come Nefertari e Nefertiti si arriva fino a Hatshepsut, la donne-faraone più celebre della storia, alla guida di un regno lungo e prosperoso che non ha nulla da invidiare agli altri periodi. Ciò è conseguenza del concetto del Maat, che permetteva deroghe ai normali compiti affidati alle donne. Non erano solo le donne nobili ad avere diritti, ma anche nelle classi più basse vi era la possibilità di possedere beni e terre, di diventare testimoni nei processi e intraprendere azioni legali contro altri cittadini, seppur ciò si verificava di rado.

Nel corso della storia queste piccole libertà e forme di indipendenza diminuirono sempre di più, ma, allo stesso tempo, nuove conquiste in termini di diritti iniziarono a verificarsi nella sfera quotidiana. Sebbene fosse un’opportunità già contemplata nei contratti matrimoniali da molto tempo, solo nel Nuovo Regno vi sono tracce effettive dell’esercizio del diritto al divorzio da parte di donne; inoltre, le proprietà acquisite durante il periodo matrimoniale erano considerate proprietà, seppur in un rapporto 2:1, favorevole al marito, di entrambi i coniugi. Anche in caso di adulterio non vi era distinzione fra i sessi: indipendentemente dall’essere uomo o donna, chi aveva commesso il fatto riceveva lo stesso trattamento durante le pratiche di divorzio.

Infanzia

Anche dal punto di vista dei bambini, l’Antico Egitto si pone in posizione diversa rispetto alle altre società antiche. Se nell’antica Roma i figli, seppur nati nel matrimonio, venivano riconosciuti solo con l’approvazione del pater familias, il diritto alla vita veniva tutelato già dai regni più antichi, non vi sono infatti tracce di infanticidi, e, per tutelare il nascituro, le donne in gravidanza condannate a morte venivano giustiziate solo dopo il parto. Inoltre, alcune testimonianze mostrano casi in cui le madri erano coinvolte anche nella scelta del nome del nascituro, aspetto apparentemente non rilevante ma che sottolinea il diverso approccio alla famiglia.

Poichè il tasso di mortalità infantile era molto elevato per via delle condizioni igienico-sanitarie, vennero anche pubblicati dei testi con consigli su come tutelare la salute sia dei neonati che delle madri. Resti di bambole e altri giocattoli, presenti spesso nelle poche rappresentazioni di bambini nell’arte, testimoniano che durante tutta l’infanzia si dedicavano principalmente al gioco e solo successivamente iniziavano a prepararsi alla vita adulta. Questo includeva nozioni rudimentali di aritmetica oltre alle basi della lettura e scrittura comune, insegnamenti che venivano impartiti ad entrambi i sessi, sebbene alle bambine tali insegnamenti venivano impartiti unicamente nell’ambiente domestico. Tuttavia non vi era diritto di scelta nella carriera lavorativa, infatti Diodoro Siculo sottolinea come i mestieri erano ereditari e quindi, terminata la fase di gioco e la successiva istruzione di base, si entrava subito nella vita lavorativa a poco più di 13/14 anni, età in cui le ragazze si sposavano.

Antica Grecia

Polis, demos, libertà

La società dell’antica Grecia è spesso associata alla struttura della polis dislocate in tutta la penisola ellenica: una serie di realtà politiche indipendenti dove vi era l’identificazione tra libertà individuali e quella della città. Questo porta a una visione diversa delle istituzioni politiche e civili rispetto a quella attuale: mancava l’idea di potersi appellare al potere pubblico rivendicando diritti non previsti o che non erano rispettati. I diritti erano dunque legati sì all’individuo ma con un forte orientamento alla vita collettiva.

Sebbene intervallata da periodi di tirannide, è nella polis che inizia a svilupparsi l’idea di un ordine sociale giusto e equi con la conseguente nascita delle prime forme di democrazia. La libertà, l’eleuthería, veniva rivendicata con orgoglio e usata come tratto distintivo ellenico in confronto con le altre popolazioni “barbare”. Tuttavia tali libertà e, più in generale, i diritti garantiti nella polis erano prerogativa dei soli cittadini maschi adulti non schiavi: tutti gli altri erano esclusi anche se contribuivano, ad esempio, alla vita economica come avveniva per gli stranieri residenti. Ad Atene questi ultimi avevano però la possibilità di diventare cittadini solo a seguito di un periodo di residenza sufficientemente lungo e dietro pagamento di un tributo speciale, ma nonostante ciò, svolgevano il servizio militare in corpi distinti e non potevano partecipare a tutti i tipi di cerimonie religione o processi penali. In alcune città vi erano inoltre vere e proprie leggi che punivano severamente i non cittadini che si intromettevano nei confronti nei tribunali, in piazza o nelle assemblee del demos.

Libertà di parola, pensiero

La struttura della polis si basava su tre principi fondamentali: l’isegoria, ovvero un uguale diritto di parole nelle assemblee; l’isonomia, l’uguale partecipazione alla vita politica; e la parresia, il diritto alla libertà di parola. Ovviamente, tali pilastri riguardavano solo i cittadini. Tuttavia, vi erano forti limiti alla libertà di espressione e di pensiero: la graphé paranómon e l’ostracismo, due strumenti nati per tutelare la legge e i cittadini che però si prestavano facilmente ad abusi e usi impropri, in particolare, graphé paranómon è identificata da molti storici come l’inizio della decadenza della democrazia Ateniese. Questo perché era relativamente facile appellarsi ad esse per sbarazzarsi di avversari politici, inoltre, l’ostracismo poteva anche essere applicato preventivamente e aveva carattere puramente politico: dagli scritti di Plutarco si evidenzia come Aristide, politico ateniese del VI e V secolo a.C., venne condannato, e quindi esiliato, perché la sua fama di uomo retto e giusto lo rendevano un tiranno potenziale. Questa è tuttavia la versione “ufficiale” della storia, molti studiosi, infatti, considerano la vera causa dell’ostracismo l’opposizione di Aristide alla legge navale proposta dal suo avversario politico.

Liberta di religione?

La religione nell’antica Grecia era strettamente legata alla vita politica e quotidiana della polis, tant’è che alle cerimonie potevano partecipare unicamente i cittadini. Il Pantheon greco era vario anche dal punto di vista delle origini, vi erano infatti divinità direttamente discendenti da quelle indoeuropee, altre influenzate dal vicino oriente, altre legate alle caratteristiche locali del territorio. Nonostante le diverse radici culturali e la suddivisione della penisola in polis autonome, la religione era parte integrante dell’identità della Grecia antica. Il sincretismo che continuò a verificarsi fra il pantheon greco e divinità di altre popolazioni, assieme alla mancanza di una vera e propria casta sacerdotale, lascerebbe pensare a un certo livello di tolleranza religiosa, tuttavia se da un lato vi era una certa tolleranza, non si può parlare di libertà di culto intesa in termini moderni. Nonostante chiunque potesse venerare divinità non elleniche nel privato della propria dimora, i culti non potevano essere svolti in pubblico e non si poteva esser perseguitati penalmente per offese alle divinità. Lo stesso Socrate, fra le varie accuse, venne ritenuto responsabile di aver introdotto nuove divinità e di disconoscere quelle tradizionali per la sua riflessione filosofica del dáimon. Infine, a seguito della conquista romana da parte dell’imperatore Teodosio, vennero banditi tutti i culti non cristiani, limitando o cancellando del tutto quelle celebrazioni religiose che per secoli avevano tenuto unito il mondo ellenico.

Bambini

L’esposizione dei neonati era pratica molto comune nell’antica Grecia, la scelta di abbandonare o meno il neonato era affidata interamente al padre a seguito di una valutazione puramente pragmatica: se il neonato rispettava i criteri del padre allora veniva riconosciuto, altrimenti veniva abbandonato. Di solito i bambini non sani o particolarmente deboli erano destinati a tale fine; in famiglie numerose le bambine erano più frequentemente esposte ma si evince dalle testimonianze che anche i figli maschi non primogeniti e i figli degli schiavi subivano lo stesso trattamento. La fine dei bambini esposti era, nella maggior parte dei casi, drammatica: una lenta morte di stenti o una vita di schiavitù e spesso prostituzione. Tuttavia, vi sono alcune tragedie e opere letterarie in generale che criticavano l’esposizione. Tale pratica fu condannata definitivamente, pena la morte, solo dopo la conquista romana della Grecia e il successivo dominio di imperatori cristiani.

Nell’antica Grecia i bambini non venivano considerati cittadini, quindi non erano destinatari dei diritti e privilegi che tale status comportava, inoltre non si attribuivano ad essi particolari bisogni o capacità. Come conseguenza di ciò, nei primi mesi di vita i bambini venivano fasciati con bende strette il cui ricambio irregolare costituiva sia un pericolo dal punto di vista medico ma anche un impedimento per la libera espressione dei propri bisogni. Tuttavia, anche nell’antica Grecia, come nell’antico Egitto, vi furono trattati medici focalizzati sulla cura degli infanti, in particolare Gynaecia di Sorano di Efeso, che suggeriva di usare per la fasciatura stoffe morbide non troppo strette, cambiate con sufficiente regolati.

Antica Roma

Civitas e libertas

Già nella Grecia antica si trovano importanti trattati di riflessione politica, ma è a Roma che tale riflessione si sviluppa fin dalle origini di Roma stessa. A partire dallo Ius quiritium dell’età arcaica, i romani iniziano a sviluppare leggi e decreti innovativi per l’epoca. Contemporaneamente a ciò, vengono composti numerosi trattati di filosofia politica, a partire da Polibio fino al celebre Cicerone.

Anche a Roma, come nell’antica Grecia il concetto di civitas e libertas erano strettamente legati, sebbene con gli stessi limiti della società greca. I cittadini romani godevano di diritti politici e civili: potevano partecipare alle assemblee, possedere beni, candidarsi nelle elezioni e arruolarsi, inoltre i cittadini romani potevano essere condannati a morte solo tramite decapitazione, considerata una pratica più clemente rispetto ai trattamenti riservati ai non cittadini. Anche in questo caso donne, minori e stranieri non avevano gli stessi diritti, e, per quel che riguarda la figura femminile, maggiore era lo status sociale della famiglia di appartenenza, minore era la libertà, infatti, nella letteratura si trovano vari esempi di donne di buona famiglia che, pur non esercitandone il mestiere, si iscrivevano nelle liste delle meretrici per sottrarsi a tutte quelle leggi e regole che limitavano la libertà delle donne nobili. Tuttavia, le donne romane potevano comunque aver diritto all’eredità in caso il pater familias morisse prima di aver contratto matrimonio, e, più in generale, potevano gestire gli aspetti economici ma non intromettersi in quelli giuridici senza un tutore.

Diritti degli stranieri

A differenza dell’antica Grecia gli stranieri godevano di vari diritti e potevano anche acquisire la cittadinanza romana, come anche gli schiavi divenuti liberti sotto alcune condizioni. Inoltre, per i soldati in territori stranieri tramite lo ius connubii si riconoscevano i figli nati da unioni miste come cittadini romani, garantendogli per nascita pieni diritti. A seguito dell’espansione dei territori romani venne concessa la cittadinanza romana anche alle popolazioni sottomesse, con lo Ius Latii promulgato da vespasiano i cittadini iberici potevano ottenere lo stato giuridico di latini, con il tempo furono sempre di più le popolazioni straniere ad ottenere lo status di cittadini.

Libertà di opinione e di stampa

Nonostante i moderni giornali hanno i primi antenati proprio nell’antica Roma, in particolare negli Acta Diurna, resoconti giornalieri, e gli Annales, contenenti le notizie più importanti, la censura fu sempre presente e nel corso dei secoli si inasprì sempre di più. Nella Roma del tardo impero, Tacito lamentava l’assenza di libertà di espressione in relazione agli eventi politici e giuridici, in particolare, dopo la reintroduzione della legge di lesa maestà da parte di Augusto e ripresa più volte dagli imperatori successivi. Divenne anche motivo di disonore non reagire alle critiche per gli uomini politici, tant’è che l’imperatore Claudio è ricordato, proprio alla luce di ciò, come un uomo debole e incapace. Lo storico romano sottolinea la differenza fra una Roma sempre più vicina alla fine con la Roma antica: “facta arguebantur, dicta impune erant”, solo le azioni erano perseguibili ma non le parole. Basti pensare che nella Roma pre-augustea sono vari gli esempi di opere letterarie che criticano con toni aspri l’operato dei politici senza che quest’ultimi intraprendessero azioni legali contro gli autori.

La situazione continuò a inasprirsi negli ultimi secoli dell’impero romano, e con il Concilio di Nicea del 325 vennero per la prima volta censurati e destinati al rogo dei libri, Costantino stesso stabilì la pena di morte a chiunque cercasse di salvare tali libri, scritti da un teologo berbero. La vicenda creò un precedente destinato a ripetersi per secoli, infatti ancora oggi si verificano sistematicamente episodi di censura, di limitazione della libertà di espressione, stampa e pensiero. 

Martina Luca

Bibliografia