Nord e sud del mondo

Il peso politico di una nazione, la sua stabilità economica, un’istruzione fruibile e accessibile a tutti, così come l'accessibilità all'assistenza sanitaria cambiano drammaticamente se si parla di un Paese del Nord o del Sud del Mondo.

Ma che si intende per Nord e Sud del Mondo? Il concetto di Global North e Global South (o divisione Nord-Sud in un contesto globale) viene utilizzato per descrivere un raggruppamento di paesi in base a caratteristiche socio-economiche e politiche.  “Sud del mondo” è un termine generalmente utilizzato per identificare i paesi nelle regioni dell'America Latina, dell'Africa, dell'Asia e dell'Oceania. Diversi paesi del Sud del mondo sono caratterizzati da basso reddito, popolazione densa, scarse infrastrutture, spesso emarginazione politica o culturale; c'è poi il cosiddetto “Nord del mondo” (che comprende Stati Uniti, Canada, Europa, Russia, Israele, Hong Kong, Macao, Giappone, Corea del Sud, Singapore, Taiwan, Australia, Nuova Zelanda e pochi altri a seconda del contesto), che generalmente è sinonimo di “mondo occidentale”, ovvero quei paesi maggiormente sviluppati. 

Il concetto di divario tra il Nord del mondo e il Sud del mondo è quindi soprattutto  in termini di sviluppo e ricchezza. Questo gap è evidente sin dagli anni '80. Proprio in questo periodo, infatti,  è stata sviluppata la linea Brandt, che suddivide il mondo in due  gruppi: uno è composto da Paesi relativamente più ricchi; l’altro da quelli più poveri. Secondo questo modello:

Queste due regioni del mondo sono profondamente diverse anche per quanto riguarda l’interpretazione e l’applicazione dei diritti umani.

Solitamente, si suole ricondurre i diritti umani al solo appannaggio degli stati del Nord del mondo. Semplicisticamente, spesso si associa il Nord del mondo ai diritti civili e politici, mentre il Sud del mondo ai diritti economici, sociali e culturali. Ebbene, questi assunti, come afferma Mogens Lykketoft (eletto Presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unilte il 15 giugno 2015), sono "errate in entrambi i casi".

Infatti, come emerge dallo studio “The Making of International Human Rights: The 1960s, Decolonization, and the Reconstruction of Global Values”,  di Steven L.B. Jensen, pubblicato nel 2016, non solo gli Stati del Nord del mondo, ma anche quelli del Sud, come Ghana, Giamaica, Liberia e Filippine, hanno avuto un ruolo nello sviluppo del sistema internazionale dei diritti umani. Per esempio, nel corso dell’assemblea tenutasi per l’eliminazione della discriminazione razziale del 1966, due paesi hanno avuto un ruolo centrale: Ghana e Filippine. L’autore, inoltre, afferma che il 1962 è stato un punto di svolta nel lavoro sui diritti umani per i seguenti motivi:

Particolare è l’atteggiamento del Nord e del Sud del mondo nei confronti dei diritti di terza generazione, i cosiddetti diritti collettivi, quali il diritto allo sviluppo, il diritto alla pace, il diritto ad un ambiente sano e il diritto all’assistenza umanitaria. Infatti, le norme giuridiche internazionali che li affermano in modo esplicito sono adottate nell’ambito di organizzazioni internazionali che raggruppano Stati appartenenti per lo più ai Paesi in via di sviluppo del Sud del Mondo, come l’Unione africana e gli Stati dell’America Latina. Gli Stati occidentali, il Giappone, la Corea del Sud e gli altri Paesi sviluppati hanno sempre mantenuto un atteggiamento piuttosto prudente, in seno alle Nazioni Unite, in tutte le votazioni che hanno riguardato l’adozione di risoluzioni in materia di diritto allo sviluppo o di diritto alla pace. La stessa sensibilità dei Paesi europei in campo ambientale è prevalentemente orientata a garantire i tradizionali diritti di prima o — indirettamente — di seconda generazione, piuttosto che un esplicito e autonomo diritto all’ambiente. Questo perché i diritti di terza generazione, per molti aspetti relativi alla loro struttura, appaiono distaccarsi dalla tradizionale concezione di diritti umani.

In primo luogo, i diritti di terza generazione sono diritti (anche) collettivi. La nozione di «popolo» o di «gruppo» non è affatto pacifica; anche se lo fosse, resta difficile individuare chi sarebbe titolato a esercitare tali diritti (un rappresentante del gruppo? Un’organizzazione? Lo Stato?).

A rendere le cose più complesse si aggiunge il fatto che molti documenti internazionali (per esempio la Risoluzione del 1986 sul diritto allo sviluppo) attribuiscono la titolarità dei diritti di terza generazione sia ai popoli sia agli individui

Non vanno sottaciuti infine rischi di manipolazione che connotano i diritti di terza generazione. Il loro carattere indefinito e incompleto li espone a un utilizzo demagogico e regressivo, in particolare quando essi non vengono utilizzati come complemento e orientamento alla affermazione dei diritti individuali, ma in contrapposizione a questi ultimi e quindi per indebolire, invece che rafforzare, i diritti umani nel loro complesso


In conclusione, possiamo dire che i diritti umani non possono e non devono essere applicati in singole realtà, in singoli Paesi o in una sola parte del mondo. Infatti, ovunque gli individui vogliono la stessa cosa: poter parlare liberamente, poter praticare la propria religione o astenersi dal credo religioso, non sentirsi minacciati, ma tutelati dallo Stato, non essere detenuti senza un'accusa e, se accusati, avere un processo equo. Nessuna delle suddette aspirazioni dovrebbe essere dipendente dalla cultura, dalla religione o dallo sviluppo economico.

Elena Fiorelli

Bibliografia