Il dibattito sull'universalità dei diritti umani

La storia e l’evoluzione dei diritti umani, così come sono comunemente intesi nel mondo moderno, ha subito una fortissima accelerazione durante il Novecento, tanto da far sì che Norberto Bobbio lo definisse, nel titolo di uno dei suoi saggi più famosi, “l’età dei diritti” (Bobbio, 1990). In ambito internazionale, questa spinta si è manifestata, nonostante tutte le tragedie di cui questo secolo è stato protagonista (o forse proprio a causa di esse), attraverso un largo processo di riconoscimento e positivizzazione: a partire dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, approvata dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 1948, infatti, moltissimi Stati hanno approvato convenzioni a tutela dei diritti umani con valore vincolante e, in alcuni casi, come in Italia, i diritti fondamentali sono stati incorporati anche nelle costituzioni degli stati democratici.

Inoltre, proprio in questo secolo viene abbandonata in via definitiva la pretesa di voler trovare un fondamento unico all’idea dei diritti umani, che sia esso di origine naturale, etica o morale. Si può dire, con Bobbio, che la Dichiarazione “rappresenta la manifestazione dell’unica prova con cui un sistema di valori può essere considerato umanamente fondato e quindi riconosciuto: e questa prova è il consenso unanime circa la sua validità” (Bobbio, 1990).

Non bisogna però lasciarsi trarre in inganno: il fatto che i diritti umani siano stati, in astratto, riconosciuti e accettati come validi da moltissimi Stati nel mondo non implica necessariamente l’esistenza di un consenso universale sulla loro interpretazione e giustificazione. Un esempio emblematico in tal senso è rappresentato dalla Conferenza delle Nazioni Unite che si tenne a Vienna nel giugno del 1993. In quell’occasione, infatti, i rappresentanti di alcuni Paesi dell’America Latina e dell’Asia misero in discussione la tesi dell’universalità e dell’indivisibilità dei diritti umani portata avanti dai paesi europei e nordamericani, argomentando che una simile interpretazione nascondeva una matrice marcatamente occidentale delle convenzioni sui diritti umani, interpretabile, all’estremo, come un’ingerenza nella politica interna dei paesi orientali. Inoltre, si disse, esiste un’intera classe di valori specificatamente asiatici (disciplina, ordine, coesione sociale, senso di comunità ecc.), che sono per loro natura inconciliabili con l’idea dell’individualismo universale prevalente in Occidente (Cerna 1994, Dich. Bangkok 1993). Al termine della conferenza, il concetto di universalità dei diritti umani, indipendentemente dai contesti socioculturali e locali, fu ribadito più volte nel documento conclusivo, la cosiddetta Dichiarazione di Vienna (1993). Da quel momento, tuttavia, si è aperto nella comunità internazionale un dibattito sempre più acceso sui cosiddetti Asian values, con diverse posizioni e argomentazioni provenienti da diverse autorevoli personalità sia occidentali che orientali.

La questione di fondo può essere riassunta nel modo seguente. Da un lato, la teoria dei diritti umani richiede che si accetti in maniera incondizionata l’idea dell’universalità dei diritti, uno dei caratteri fondamentali della nozione stessa di diritti umani: i diritti, per poter esser definiti umani, devono essere “di tutti”, incondizionatamente, e se così non fosse perderebbero la loro ragion d’essere. Dall’altro lato, tuttavia, è un dato di fatto che diverse culture e diversi gruppi sociali, per storia e tradizione, riconoscono e si conformano a valori chiaramente distinti, che non necessariamente sono gli stessi che rientrano nella concezione consueta dei diritti umani.

È da precisare che la questione non riguarda allo stesso modo tutti i diritti. Se infatti è relativamente semplice per tutti i Paesi riconoscere l’universalità di diritti come la proibizione dell’uso della forza, la condanna del genocidio e della schiavitù, il principio della non discriminazione razziale, l’autodeterminazione dei popoli ecc., vale a dire i cosiddetti diritti ius cogens (diritti inderogabili), tutta la classe dei diritti “privati”, che riguarda temi come la religione, la cultura, la condizione delle donne, il matrimonio e il divorzio, la protezione dei bambini, la scelta nella pianificazione familiare ecc., è invece più suscettibile di dibattito, perché va ad intaccare direttamente la cultura, le credenze religiose e le tradizioni dei diversi popoli. Ad esempio, già nel 1948, durante il dibattito che portò all’approvazione della Dichiarazione Universale, la prima proposizione dell’art. 18 (“Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione”) fu accolta unanimemente da tutti i Paesi, mentre quella immediatamente successiva (“Tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo”) fu criticata da alcuni Paesi musulmani, sulla base del fatto che il Corano proibisce ai credenti di cambiare la propria religione. Questo dissenso fu, tra le altre cose, il motivo per cui l’Arabia Saudita si astenne dal voto finale.

Questo costante richiamo alle particolarità locali a discapito dell’universalità dei diritti non è, tra l’altro, esclusivo dei Paesi orientali. Ad esempio, nel 1987 si celebrò presso la Corte Europea dei Diritti Umani il processo per il caso Johnston v. Irlanda in cui si accusava il governo irlandese di negare il diritto al divorzio, all’epoca assente nella Costituzione irlandese, in apparente contrasto con la Convenzione Europea dei Diritti Umani. Viste l’opinione pubblica irlandese contraria al divorzio, che si era espressa con un referendum, l’importanza storica del cattolicesimo nel paese e la proibizione del divorzio nella Costituzione, la Corte si espresse a favore del governo, negando dunque la possibilità di rescindere dal legame matrimoniale in Irlanda. Il divorzio fu successivamente introdotto solo un decennio più tardi, nel 1996, con un emendamento alla Costituzione irlandese, a seguito di un nuovo referendum vinto con appena il 50,28% dei voti. In questo caso, dunque, la Corte Europea scelse di far prevalere una particolarità locale, ignorando di fatto l’esistenza di uno standard comune sulla questione in Europa: il divorzio, infatti, era già stato introdotto in Inghilterra nel 1857, in Francia nel 1884, in Spagna nel 1932, in Svizzera nel 1907, in Germania nel 1938 e in Italia nel 1970.

Un altro esempio, recentemente tornato alla ribalta, riguarda gli Stati Uniti e l’aborto. Nel 1981, un gruppo d’azione politica cattolico avviò una class action per contrastare la sentenza Roe v. Wade con la quale, nel 1973, la Corte Suprema americana aveva legalizzato il diritto all’aborto. Tale azione legale si basava sull’art. 4 della Convenzione Americana sui Diritti Umani, secondo cui “ognuno ha il diritto di vedere la propria vita rispettata. Tale diritto dovrà essere protetto per legge e, in generale, dal momento del concepimento.” . Poiché gli Stati Uniti non avevano (e non hanno tuttora) ratificato la Convenzione, la Commissione giudicatrice decise in prima battuta di applicare la Dichiarazione dei Diritti e Doveri dell’Uomo che, all’art. 1 dice che “ogni essere umano ha il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della persona” . Tuttavia, poiché questa formulazione non parla direttamente di aborto, la Commissione decise infine di applicare comunque anche la Convenzione Americana, in quanto ritenuta “compatibile” per natura. Guardando dunque ai lavori preparatori della Convenzione per investigare l’intento dietro quelle norme, la Commissione scoprì che gli autori di quella Convenzione avevano inserito le parole “in generale” nell’art. 4 proprio come soluzione di compromesso tra i paesi contrari all’aborto e quelli che invece lo avevano già legalizzato. Fu così possibile argomentare la legittimità della sentenza americana e, dunque, dell’istituto dell’aborto. Anche in questo caso, la decisione fu presa in contrasto allo standard comune dei Paesi del continente americano, che per la maggior parte ritenevano l’aborto una pratica illegale.

Come si vede, dunque, la questione dell’universalità teorica dei diritti e la loro applicazione pratica nella realtà è molto complessa e sfaccettata. Il cammino verso la progressiva accettazione e tutela dei diritti umani in tutti i Paesi del mondo è ancora lungo, ma ciò che è certo è che, nel percorrerlo, è importante mantenere un atteggiamento di dialogo e di apertura all’incontro (che talvolta diventa anche scontro) con le culture e le tradizioni locali, che sono il risultato di processi storici e culturali di lungo corso e, per questo motivo, sono parte intrinseca dell’identità dei diversi popoli e delle persone che in essi si riconoscono.

Simone Romano

Bibliografia